Idealizzare gli altri è un fenomeno psicologico comune e spesso invisibile a chi lo mette in atto.
Si tratta di una tendenza naturale, a volte rassicurante, ma che può compromettere profondamente la qualità delle relazioni. Il rischio è quello di vedere l’altro non per ciò che è, ma per ciò che si vorrebbe fosse, generando aspettative irrealistiche che inevitabilmente conducono a delusione, frustrazione o dipendenza emotiva. Nel lavoro clinico, il tema dell’idealizzazione emerge frequentemente come elemento centrale in difficoltà relazionali, stati ansiosi, dipendenza affettiva e nei fallimenti amorosi ripetuti. In questo articolo analizzeremo cosa significa idealizzare, cosa porta a farlo, quali dinamiche emotive e psicologiche si attivano in questo processo e in che modo è possibile iniziare a vedere l’altro in modo più autentico, riducendo aspettative irrealistiche.
Cosa significa idealizzare qualcuno
Idealizzare significa attribuire a una persona qualità, intenzioni o capacità esageratamente positive, spesso senza dati oggettivi a sostegno. Non si tratta semplicemente di ammirazione, ma di una visione distorta che eleva l’altro su un piedistallo. In psicologia, si parla di idealizzazione soprattutto in ambito relazionale, quando una persona viene vista come perfetta, salvifica o totalmente buona, ignorando o minimizzando i suoi difetti o limiti reali [1].
Questo processo può avvenire all’inizio di una relazione amorosa (“effetto luna di miele”), nell’amicizia, nel rapporto con un terapeuta o anche in contesti lavorativi o familiari. Spesso la persona idealizzata diventa inconsciamente il depositario di nostri desideri profondi: essere amati incondizionatamente, compresi senza dover spiegare, salvati da una condizione di fragilità o solitudine. Idealizzare è, in fondo, un tentativo di controllo: se l’altro è “perfetto”, allora possiamo sentirci al sicuro con lui. Ma è una sicurezza illusoria, fondata su una rappresentazione parziale e instabile.
Perché idealizziamo qualcun altro
Idealizzare gli altri ha radici emotive profonde, spesso legate alle nostre prime esperienze relazionali. Crescere in un contesto in cui i bisogni affettivi non sono stati pienamente soddisfatti può portare, in età adulta, a cercare fuori di sé una figura che colmi quel vuoto. L’idealizzazione allora diventa una strategia – spesso inconsapevole – per rispondere a bisogni emotivi antichi, come il desiderio di essere amati senza condizioni o di avere una guida sicura.
Dal punto di vista psicologico, si tratta di un meccanismo compensatorio che la mente utilizza per fronteggiare un disagio interno. Idealizzando qualcuno, cerchiamo inconsciamente di costruire un equilibrio, anche illusorio, per ridurre l’ansia o il senso di incompletezza. Tuttavia, nel tempo, questo equilibrio si rivela fragile e disfunzionale, contribuendo al mantenimento della sofferenza relazionale [2]. Idealizziamo anche per paura della realtà: vedere l’altro per com’è realmente, con limiti, incoerenze e fragilità, può attivare sentimenti di vulnerabilità.
La delusione o il conflitto diventano allora emozioni da evitare a ogni costo, anche a prezzo dell’autenticità. Inoltre, idealizzare può essere un modo per evitare di confrontarsi con la propria solitudine o con le proprie insicurezze. Infine, in alcuni casi, l’idealizzazione è sostenuta da modelli culturali e narrativi che promuovono l’idea del “partner perfetto” o dell’“amico ideale”, alimentando fantasie romantiche e irrealistiche. Questo è particolarmente evidente nella cultura contemporanea, dove le immagini proposte dai media e dai social network contribuiscono a costruire aspettative relazionali spesso irraggiungibili [3].
Le conseguenze nelle relazioni
Idealizzare qualcuno non è senza conseguenze. Anzi, sul lungo periodo, questo meccanismo può
compromettere profondamente la qualità e la stabilità delle relazioni. Le aspettative irrealistiche che ne
derivano creano uno scarto continuo tra ciò che ci si aspetta dall’altro e ciò che l’altro effettivamente è o può offrire. Questo scarto genera frustrazione, risentimento e, infine, delusione.
Una delle conseguenze più comuni è la tendenza a oscillare tra idealizzazione e svalutazione. L’altro viene inizialmente visto come perfetto, per poi essere drasticamente ridimensionato o addirittura denigrato non appena manifesta comportamenti che contraddicono l’immagine idealizzata. Questo schema, tipico di relazioni instabili o conflittuali, è spesso presente nei disturbi della personalità, ma anche in molte dinamiche relazionali comuni [4].
Idealizzare, inoltre, può creare una forma di dipendenza emotiva. Se l’altro è visto come fonte indispensabile di sicurezza, validazione o amore, allora ogni sua mancanza viene vissuta come una minaccia alla propria stabilità psicologica. Si sviluppa così una relazione asimmetrica, in cui il bisogno di essere accettati o rassicurati prevale sulla reciprocità. Anche l’autenticità della relazione ne risente: quando idealizziamo qualcuno, smettiamo di vederlo davvero.
Le sue emozioni, opinioni, limiti e contraddizioni non vengono accolti, ma filtrati attraverso la lente delle nostre aspettative. Questo rende difficile la costruzione di un legame autentico, basato sulla conoscenza reciproca e sull’accettazione della complessità dell’altro. Infine, idealizzare può avere effetti sulla propria autostima. Confrontarsi continuamente con qualcuno che viene visto come “migliore”, “più sicuro”, “più completo”, può rinforzare una visione svalutata di sé, alimentando insicurezza e senso di inadeguatezza.
Strategie per riconoscere e ridimensionare le aspettative
Cambiare il modo in cui percepiamo gli altri richiede consapevolezza, volontà e strumenti concreti. Di seguito vengono proposte alcune strategie psicologiche utili per iniziare a ridurre la tendenza all’idealizzazione e costruire relazioni più realistiche e appaganti.
- Riconoscere i segnali dell’idealizzazione
Il primo passo è diventare consapevoli del proprio modo di relazionarsi. Alcuni segnali utili da osservare sono:- pensieri ricorrenti del tipo “solo lui/lei può capirmi” o “non ha difetti”;
- forte dipendenza emotiva dal comportamento dell’altro;
- paura intensa della delusione o del conflitto;
- difficoltà a vedere limiti o incoerenze nel comportamento altrui.
Una buona domanda da porsi è: “Sto vedendo questa persona per ciò che è, o per ciò che desidero che sia?”
- Interrogare le proprie aspettative
Spesso le aspettative non sono esplicitate. Chiedersi quali idee abbiamo su come “dovrebbe essere” l’altro o la relazione è un modo per iniziare a separare la realtà dalla proiezione. Scrivere su carta le proprie aspettative aiuta a renderle visibili e comprensibili. Si può poi confrontare questa lista con ciò che effettivamente l’altro mostra nella realtà quotidiana. - Osservare la realtà nei comportamenti concreti
Un passaggio fondamentale è osservare la persona in situazioni diverse e significative, come momenti di stress, incertezze o conflitti. Il comportamento nei contesti quotidiani può rivelare aspetti importanti che sfuggono quando si guarda solo ciò che si vuole vedere. Non si tratta di giudicare, ma di raccogliere elementi oggettivi per costruire un’immagine più completa dell’altro [5]. - Accettare il disincanto come parte della crescita
Smettere di idealizzare comporta anche attraversare una fase di disillusione. È normale che, vedendo l’altro per com’è realmente, si provi delusione. Ma questo non è un fallimento: è una tappa necessaria per costruire relazioni più autentiche. Il disincanto è, in questo senso, un segnale positivo: indica che stiamo vedendo con maggiore chiarezza. - Rinforzare l’autonomia emotiva
Idealizziamo maggiormente quando ci sentiamo incompleti o vulnerabili. Lavorare sulla propria autonomia emotiva è un modo potente per ridurre la tendenza a proiettare sugli altri bisogni irrisolti. Attività come la mindfulness, la riflessione personale, lo sviluppo dell’autoefficacia e la cura di sé possono aiutare a costruire una base interna più solida [6]. - Allenare lo sguardo critico in modo costruttivo
In alcuni casi, può essere utile esercitarsi a notare consapevolmente gli aspetti meno idealizzati della
persona: piccoli difetti, incoerenze, o semplicemente caratteristiche neutre. Farlo senza giudizio, come esercizio di osservazione della realtà, aiuta a restituire tridimensionalità alla figura dell’altro e a uscire da una visione mitizzata [7].
Conclusioni
Il corpo parla, talvolta prima della mente. L’intestino, in particolare, rappresenta un luogo privilegiato dove emozioni, pensieri e segnali corporei si incontrano e si influenzano reciprocamente. L’asse intestino-cervello non è un concetto astratto, ma una realtà biologica che merita attenzione anche nell’ambito della psicologia clinica.
Riconoscere il ruolo dell’intestino nella salute mentale significa uscire da una visione frammentata dell’essere umano e adottare una prospettiva integrata, dove mente e corpo dialogano in modo continuo. Per chi si occupa di salute psicologica, aprirsi a questo dialogo rappresenta non solo una possibilità di intervento più efficace, ma anche un’opportunità per restituire alla persona la sensazione di avere, dentro di sé, risorse naturali per il proprio equilibrio.
In definitiva, la crescente evidenza scientifica sull’asse intestino-cervello suggerisce che la regolazione della salute mentale non può prescindere dalla considerazione dei meccanismi neurobiologici e immunologici che coinvolgono l’intestino. Intervenire sul piano psicologico significa anche valutare l’equilibrio del sistema enterico e del microbiota, in un’ottica integrata. L’intestino si configura così non solo come organo digestivo, ma come attore attivo nei processi che influenzano umore, stress e resilienza psicologica.
Contributo a cura di Dott.ssa Roberta Iannuzzo
Bibliografia
1. Kernberg, O. F. (1975). Borderline Conditions and Pathological Narcissism. New York: Jason
Aronson.
2. Nardone, G. (2003). Oltre i limiti della paura. Ponte alle Grazie.
3. Illouz, E. (2012). Why Love Hurts: A Sociological Explanation. Polity Press.
4. Linehan, M. M. (1993). Cognitive-Behavioral Treatment of Borderline Personality Disorder. Guilford
Press.
5. Nardone, G., Balbi, E. (2008). Solcare il mare all’insaputa del cielo. Ponte alle Grazie.
6. Siegel, D. J. (2007). The Mindful Brain: Reflection and Attunement in the Cultivation of Well-Being.
Norton.
7. Watzlawick, P., Weakland, J., Fisch, R. (1974). Change: Principles of Problem Formation and
Problem Resolution. Norton.
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