Genitorialità

La parentificazione: quando i genitori invertono i ruoli

Ci sono famiglie in cui il confine tra adulto e bambino si dissolve. Senza che nessuno lo stabilisca esplicitamente, è il figlio a occuparsi dei bisogni emotivi o pratici dei genitori, a tenere in equilibrio la casa, a diventare un riferimento insostituibile. Questa inversione di ruoli, apparentemente funzionale alla sopravvivenza del sistema familiare, ha però un costo elevato: il bambino smette di essere tale e si adatta precocemente a funzioni che non gli appartengono.

Molti adulti arrivano in terapia con un senso di stanchezza cronica, difficoltà relazionali, incapacità a chiedere aiuto, senza rendersi conto di aver trascorso gran parte della vita a “reggere il mondo” per conto di altri. Spesso non collegano il proprio disagio alla storia familiare, ma alle circostanze presenti. Eppure, il passato continua ad agire, attraverso schemi automatici che si ripetono. Riconoscere e sciogliere questi copioni è il primo passo per liberarsi da un ruolo che non si è scelto, ma che ha finito per definire l’identità.

Cos è la parentificazione

La parentificazione è un processo attraverso il quale il bambino assume, in modo continuativo, responsabilità emotive o pratiche che spetterebbero ai genitori [1]. Non si tratta di piccoli gesti di collaborazione familiare, ma di una vera e propria inversione dei ruoli. Il figlio diventa il sostegno emotivo del genitore, il mediatore nei conflitti familiari, o colui che si occupa concretamente della gestione domestica o dei fratelli.

Si possono distinguere due forme principali:

  • Parentificazione strumentale, in cui il bambino agisce concretamente in compiti adulti (fare da mangiare, badare ai fratelli, aiutare economicamente)
  • Parentificazione emotiva, in cui il figlio diventa il contenitore dei vissuti del genitore, il suo confidente, la sua fonte di conforto o di stabilità affettiva

Ciò che le accomuna è il fatto che questi ruoli vengano assunti precocemente, in modo rigido, senza possibilità di scelta e senza riconoscimento. Il figlio “funziona” per il bene della famiglia, ma al prezzo della sua infanzia.

Nel linguaggio clinico non sempre il termine viene utilizzato, ma i segnali sono visibili: adulti eccessivamente responsabili, incapaci di chiedere aiuto, con un ipercontrollo emotivo, spesso affaticati da una vita che sembra sempre chiedere troppo.

Quando e perché si verifica la parentificazione

La parentificazione non avviene in tutte le famiglie disfunzionali, ma in quelle in cui manca
una chiara organizzazione gerarchica. La confusione nei ruoli può essere il risultato di:

  • Presenza di traumi o perdite non elaborati, che portano l’adulto a non essere disponibile affettivamente per il proprio ruolo
  • Famiglie monoparentali, in cui il figlio diventa surrogato del partner mancante
  • Conflitti coniugali, dove il bambino è coinvolto come alleato, confidente o mediatore
  • Contesti socioculturali difficili, in cui si richiede al bambino di “adattarsi” per garantire la sopravvivenza familiare
  • Genitori fragili emotivamente, che riversano sul figlio le proprie insicurezze, paure, solitudini

Spesso non vi è cattiva intenzione da parte dei genitori. Anzi, la parentificazione è accompagnata da riconoscimenti del tipo: “sei speciale”, “sei più maturo della tua età”, “sei l’unico che mi capisce”. Il bambino cresce con un senso del dovere profondo, legato alla sensazione che, se non fosse per lui, tutto crollerebbe. Questo lo porta a sentirsi utile, ma anche indispensabile. Una trappola affettiva in cui si scambia l’amore con la funzione [2].

L’approccio breve strategico permette di cogliere questa dinamica non solo come effetto di un passato traumatico, ma come un tentativo di soluzione reiterato nel tempo: il figlio impara che essere utile, salvare, contenere, è l’unico modo per sentirsi amato o riconosciuto. Da adulto, replicherà questa logica in ambiti nuovi, con effetti problematici.

Conseguenze sull’identità e sulla vita adulta

Gli effetti della parentificazione si radicano nella costruzione dell’identità e si riflettono nelle
relazioni, nella capacità di prendersi cura di sé e nella gestione dei confini.

Tra i tratti più comuni osservati nei pazienti adulti troviamo:

  • Negazione dei bisogni personali: chi è stato parentificato spesso fatica a riconoscere le proprie emozioni, le proprie esigenze, o a concedersi piacere e leggerezza
  • Relazioni sbilanciate: tendenza ad attrarre o a scegliere partner fragili, da salvare, in una continua ripetizione del modello originario
  • Difficoltà a chiedere aiuto o a delegare: l’autonomia, sebbene apparente, si regge su una profonda sfiducia negli altri
  • Senso di colpa costante: anche quando prova a mettersi al centro della propria vita, la persona si sente in colpa, come se tradisse il patto originario con i genitori
  • Ipercontrollo e iperresponsabilità: la persona si sente costantemente in dovere di occuparsi degli altri, assumendo il ruolo del “regolatore emotivo” in ogni contesto

In terapia, questi pazienti non portano la parentificazione come motivo del disagio, ma raccontano vissuti di ansia, esaurimento, relazioni disfunzionali, incapacità a “staccare”. Il legame con la famiglia d’origine può essere ancora attivo, oppure molto distante, ma resta internamente vivo, sotto forma di copione automatico: “Se non ci penso io, nessuno lo farà”, “Se non servo, non valgo” [3].

L’obiettivo terapeutico non è “curare il passato”, ma interrompere il circuito disfunzionale che lo tiene attivo nel presente.

Come affrontare la parentificazione in terapia

Il lavoro terapeutico con pazienti che hanno vissuto la parentificazione richiede un approccio diretto, ma graduale. Non basta raccontare la storia. È necessario che la persona sperimenti, concretamente, nuove modalità di funzionamento.

Per questo, l’intervento si articola in fasi, con tecniche mirate a scardinare le rigide tentate soluzioni messe in atto:

1. Smontare le convinzioni

Una delle prime aree di intervento riguarda la credenza che, se non si è sempre presenti, utili e perfetti, si verrà abbandonati o si causeranno danni irreparabili. Questa convinzione guida molte scelte relazionali e blocca ogni tentativo di autonomia. In seduta, si lavora con tecniche paradossali e prescrizioni che spingono il paziente a “disobbedire” alle aspettative interiorizzate, con piccoli gesti simbolici e concreti.

2. Riattivare il sentire personale

Il bambino parentificato ha spesso disimparato a sentire. Ha imparato a rispondere ai bisogni altrui, a prevedere emozioni e tensioni, ma non a stare in contatto con le proprie emozioni. Un passaggio fondamentale è reimparare a riconoscere ciò che si prova, senza giudizio. Tecniche come il diario emotivo, l’autosservazione guidata o l’uso mirato del silenzio in seduta permettono di riaccendere la percezione interna.

3. Sbloccare l’identità congelata nel ruolo

Molti pazienti continuano a interpretare ruoli di salvatore, sostegno, mediatore, anche quando non servono più. Il lavoro strategico consiste nel creare esperienze correttive che permettano di sperimentare nuovi modi di stare in relazione, dove il valore personale non è legato alla funzione.

4. Affrontare il senso di colpa e il lealismo invisibile

Il legame con i genitori è spesso mantenuto da un lealismo silenzioso, un senso di colpa per ciò che si prova o per l’idea di “lasciare andare”. Qui il lavoro si fa più profondo: si aiutano i pazienti a ristrutturare il senso della relazione, separando affetto e funzione, amore e sacrificio. In alcuni casi, è utile lavorare con tecniche immaginative o con lettere terapeutiche, che consentano di esprimere ciò che non è mai stato detto, anche senza inviarlo [4].

5. Progettare il futuro senza ruoli predefiniti

Il cambiamento avviene pienamente quando la persona inizia a costruire scelte non più basate sul bisogno di essere utile, ma sul desiderio autentico. L’obiettivo finale è restituire al paziente la possibilità di vivere relazioni reciproche, scegliere in base a ciò che lo nutre, e non in base a ciò che ripara.

Conclusioni

Quando un bambino assume il ruolo dell’adulto, lo fa per necessità, non per scelta. In quel momento, rispondere ai bisogni degli altri diventa una strategia di sopravvivenza. Ma ciò che nasce come adattamento può trasformarsi, col tempo, in un copione rigido che orienta tutta la vita: essere sempre forti, utili, presenti, anche a costo di ignorare se stessi.

La terapia, in questi casi, non si limita a esplorare le origini del disagio, ma lavora per interrompere attivamente le modalità disfunzionali che si sono radicate. Attraverso piccoli cambiamenti mirati, la persona può iniziare a sottrarsi al ruolo di “regolatore del sistema”, smettendo di interpretare un copione appreso e non più necessario.

Uscire dalla parentificazione non significa tradire la propria storia, ma ridefinirla. Significa imparare che esistere non richiede necessariamente di essere utili, forti o sempre disponibili. È possibile scegliere, con gradualità e consapevolezza, relazioni in cui il valore personale non dipende dalla funzione, ma dalla presenza autentica. Rinunciare a salvare tutti, allora, può diventare il primo vero atto di cura verso di sé.

Contributo a cura di Dott.ssa Roberta Iannuzzo

Bibliografia

1 Jurkovic, G. J. (1997). Lost Childhoods: The Plight of the Parentified Child. Brunner/
Mazel

2 Chase, N. D. (1999). Burdened Children: Theory, Research, and Treatment of
Parentification. Sage.

3 Wells, M., & Jones, R. (2000). “Childhood Parentification and Adult Attachment
Styles”. The American Journal of Family Therapy, 28(3), 229–237.

4 Nardone, G., & Balbi, E. (2008). Correggimi se sbaglio. Conversazioni strategiche
nelle relazioni interpersonali. Ponte alle Grazie.

5 Nardone, G., & Portelli, C. (2005). Art of Change: Strategic Therapy and
Hypnotherapy without Trance. Karnac Books.

6 Weakland, J., Fisch, R., Watzlawick, P. (1974). Change: Principles of Problem
Formation and Problem Resolution. Norton

7 Pietropolli Charmet, G. (2000). I nuovi adolescenti. FrancoAngeli

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